venerdì 12 ottobre 2012

Rampini, l’anti-montiano
che “sconfessa” Repubblica
Mattia Gambilonghi Pubblicato da
il 12 ottobre 2012.
Pubblicato in Le Altre Idee.
Il modello sociale europeo: causa ultima della crisi in cui il Vecchio continente si dibatte, orpello demodé di cui disfarsi, o al contrario paradigma fondante la sua stessa identità e strumento per uscire dalle secche della recessione? Nel suo ultimo pamphlet (Non possiamo più permetterci uno Stato sociale? Falso! Laterza, pp. 116, 9 euro) Federico Rampini sembra protendere in maniera chiara e netta per questa seconda opzione. All’interno di un’operazione di vera e propria demistificazione del discorso pubblico europeo attuale, Rampini ribalta con efficacia gran parte degli stereotipi e degli “idola” (questo il termine che da il nome alla nuova collana Laterza) fatti propri dalla narrazione monetarista: dalla teoria – in odor di escatologia cristiana – “austerità espansiva” alla presunta insostenibilità dei debiti pubblici europei, passando per il “teorema Marchionne”.
Una piacevole sorpresa insomma, una boccata d’aria d’eterodossia culturale e politica in tempi di piatto grigiore rigorista. Piacevole, sì, ma soprattutto coraggiosa, se si tiene conto dell’orientamento espresso dal giornale per cui Rampini scrive. A parte qualche rarissima eccezione infatti, la redazione di Repubblica ha caratterizzato da un anno a questa parte la propria linea editoriale per il sostegno quasi incondizionato offerto all’esecutivo Monti e alla sua agenda, intrisi per l’appunto di quella filosofia austeritaria efficacemente controbattuta nel saggio in questione. Un libro che andrà insomma ad accentuare la già visibile sordità del quotidiano diretto da Mauro (e, de facto, da Scalfari) nei confronti di quell’accesso e vivace dibattito che vede diversi tra i più autorevoli economisti “non allineati” – Stiglitz e Krugman in testa – schierarsi contro una strategia di politica economica tutta protesa al raggiungimento del pareggio di bilancio, anche a scapito di crescita ed occupazione.
Di fronte a degli Stati Uniti, utilizzati come termine di paragone, sempre più oligarchici, classisti e distanti dall’ideale di dinamismo e meritocrazia dell’American Dream, Rampini contrappone orgogliosamente quello che ritiene essere il miglior prodotto della storia europea del Novecento: il suo modello sociale, ed in particolare la sua variante germanico-scandinava. Sicurezza sociale, sostegno ad un’istruzione pubblica di qualità ed alti livelli di sindacalizzazione: questi gli ingredienti attraverso cui le due sub-culture dominanti, la protestante e la socialdemocratica, avrebbero reso l’Europa all’avanguardia non solo in termini di civilizzazione e di patto sociale, ma anche sul versante dell’efficienza economica, permettendole di raggiungere standard e condizioni di vita decisamente invidiabili. Semmai, i problemi dell’Europa meridionale sarebbero attribuili non tanto – come vanno sostenendo Romney e la destra conservatrice americana – ad un eccesso di modello sociale europeo, quanto piuttosto ad un “deficit” di quest’ultimo in uno dei suoi elementi più caratterizzanti. La scarsa presenza del cosiddetto “capitale sociale” – ovvero il senso di lealtà nei confronti di istituzioni e comunità – avrebbero trasformato il Welfare State da elemento propulsivo a fonte insostenibile di sprechi e lassismo. Una tesi che non sembra poter spiegare fino in fondo le ragioni della débâcle europea, ma che viene comunque completata ed integrata facendo riferimento ai problemi che, all’interno di un’unione monetaria, pone in essere un modello come quello tedesco, un neo-mercantalismo tutto orientato alle esportazioni.
Rampini sembra dunque convinto che dalla crisi dell’eurozona si esca non tanto con le austerity policies e con lo smantellamento di uno Stato sociale che, a parere dei liberisti (europei e non), non potremmo più permetterci, ma al contrario con una sua riproposizione e ridefinizione che pongano in modalità inedite l’intreccio tra pubblico e privato, senza alcun “ritorno all’antico”.
Il limite più grave del pamphlet sta forse proprio qui, nel non riuscire cioè a delineare in maniera anche solo approssimativa gli estremi di quest’operazione di restyling. Gli unici – ma ugualmente fugaci – riferimenti concreti sono quelli relativi alla Modern Monetary Theory, la scuola economica dei radical americani, capeggiata da Galbraith jr e guardata con interesse dal movimento Occupy Wall Street, la cui asse portante è costituita dalla tesi dell’indispensabilità della sovranità monetaria.
Se quindi il libretto di Rampini tornerà sicuramente a utile a chi voglia ragionare sui pregi del modello che – tra alti e bassi – ha segnato ed informato le relazioni sociali europee per un cinquantennio abbondante, non ci sentiamo di dire lo stesso, invece, a coloro i quali volessero trovarci dentro suggestioni ed idee per il patto sociale che verrà.

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