Il sogno di una vera liberazione
dopo cent’anni di genocidi
La recente rievocazione del
genocidio del popolo armeno apre una lunga serie di tragiche ricorrenze
che rinnoveranno nei prossimi anni il ricordo di un secolo che,estesosi
ormai oltre le soglie del precedente, sarà ricordato per sempre con
rassegnata vergogna e con costante inquietudine.
Il termine fu coniato da Raphael Lemkin,
giurista polacco, proprio di origine armena. Il neologismo volle dare
un nome autonomo a uno dei peggiori crimini che l’uomo possa commettere.
Comportando la morte di migliaia, a volte milioni, di persone, e la
perdita di patrimoni culturali immensi, il genocidio è definito
dalla giurisprudenza un crimine contro l’Umanità
In quel lontano 1915 i Giovani Turchi, tardi
epigoni di un impero ottomano ormai al tramonto, si resero responsabili
per la prima volta nella storia moderna dell’Umanità di una nuova
modalità di sterminio condotta con una pianificazione dettagliata e un
dichiarato obiettivo finale da raggiungere: la scomparsa di un intero
popolo mediante la soppressione fisica di uomini e di donne, di anziani e
di bambini e persino di non ancora nati.
Un primato raccapricciante inaugurava il
‘900 dell’orrore che avrebbe visto non solo due immensi conflitti
mondiali e l’esordio dell’era atomica ma anche l’affermarsi del
convincimento che potesse esistere un nemico collettivo da cancellare
per sempre dalla faccia della terra.
Le immagini di antichi o recenti
genocidi ricordano la definizione dell’accademico francese Gérard
Prunier, secondo il quale mentre la pulizia etnica è lo sterminio di
massa di una parte della popolazione per allontanare i sopravvissuti ed
occupare il territorio, nel genocidio “vero” non esistono vie di fuga: anche i gruppi religiosi e politici non possono salvarsi attraverso la conversione o la sottomissione.
L’intenzione genocida, il desiderio di distruggere
la popolazione vittima in quanto tale (spesso assieme alla sua memoria
culturale) non è solo quello di assicurarsi il controllo di territori o
risorse economiche eliminando gli oppositori reali o potenziali. Nel genocidio, il massacro è un fine e non un mezzo.
È facile constatare tale intenzione se è esplicita e sistematica e
accompagnata da prove documentarie prodotte dall’aggressore, mentre è
difficile se è implicita e tendenziale.
La maggior parte degli eccidi del nostro
tempo può essere considerata come appartenente alle categorie
dell’esplicito e del sistematico.
La spaventosa cronologia dell’orrore può essere così riassunta:
Armenia 1915. Il
genocidio ebbe carattere nazionale e religioso (armeni – ottomani) e
ebbe come obiettivo l’eradicazione territoriale totale realizzata
mediante deportazioni,carestie, malattie ed esecuzioni. Fece un milione
quattrocentomila morti pari a circa il 70% della popolazione. Ancora
oggi la Turchia ne nega l’intento genocidiario.
Holomodor 1932 -33 si
inserì nei processi di sovietizzazione e provocò circa sette milioni di
morti tra la popolazione ucraina rea di non voler rinunziare alla
propria identità. Fu perpetrata attraverso una carestia pianificata, tra
l’indifferenza della comunità internazionale
La Shoa, il genocidio più conosciuto e studiato anche a motivo della cornice bellica in cui ebbe luogo, si svolse dal 1941 al 1945
ed ebbe come scopo la soluzione finale del popolo ebraico (e di altre
minoranze etniche) in un quadro di deliranti politiche eugenetiche. Fece
oltre cinque milioni di vittime e rappresentò il massimo esempio di
pianificazione operativa e amministrativa coinvolgendo l’intera
popolazione tedesca che fu sostanzialmente passiva, quando non
direttamente e consapevolmente impiegata nell’organizzazione dello
sterminio.
In Cambogia dal 1975 al 1979
i Khmer rossi soppressero un milione e ottocentomila persone
appartenenti in gran parte al ceto medio ed intellettuale, nell’intento
di creare “un nuovo popolo” e di cancellare ogni influenza occidentale.
Insieme ai quelli vietnamiti che fuggivano dal sud riconquistato da
Hanoi, i profughi furono i primi boat people, si
registrarono i primi respingimenti da parte di paesi quali l’Australia e
le Filippine e diverse migliaia annegarono o furono divorati dagli
squali. La Marina Militare italiana si distinse portando in salvo un
migliaio di persone.
In Ruanda nel 1994 si
consumò il genocidio degli Tutsi ad opera dell’entia degli Utu
(minoranza etnica al potere) che pur sconvolgendo l’opinione pubblica
internazionale anche per il prevalente uso di armi bianche sulle
vittime, vide spettatori inerti anche le truppe ONU, inviate nel paese
con regole d’ingaggio incerte ed ambigue. Con circa un milione di
vittime venne estinto circa l’80% dei Tutsi.
Dal 1992 al 1995 ebbe luogo la tragedia bosniaca
quale epilogo della dissoluzione della Iugoslavia. L’intento dichiarato
da parte dei serbi di “ripulire” il paese dai mussulmani portò alla
morte oltre centomila persone e vide l’impiego consapevole e pianificato
dell’abominevole tecnica dello stupro etnico. Per quanto tardivo
l’intervento bellico europeo e statunitense, cui prese parte anche
l’Italia, riuscì a porre fine alle stragi e alla dittatura di Slobodan Milosevic
che sarà poi giudicato dalla Corte Internazionale dell’Aja, senza
tuttavia che si giungesse alla condanna, a seguito della morte
dell’imputato sopravvenuta nel 2006.
Altrettanta rilevanza ebbero i frequenti interventi con intento genocidiario promossi da Saddam Hussein
nei confronti dei curdi mediante l’impiego di armi chimiche, dal 1973 e
sino alla vigilia della caduta del regime Baathista nel 2003.
Insieme ai fenomeni che è stato possibile definire in un determinato periodo temporale, vanno annoverati quei genocidi “lenti”
che si protraggono ancora oggi e vedono principalmente coinvolti il
popolo palestinese, le minoranze cristiane in Asia e nel centro
dell’Africa ad opera di governi sovrani o di fazioni fondamentaliste
spesso contrapposte.
Con la saldatura di molte di queste
fazioni nel Califfato Islamico(ISIS o DAISH) guidato da Abu Bakr
al-Baghdadi che ha raccolto l’eredità politica di Osama Bin Laden e con
il riaccendersi dopo il 2011 della rivolta mussulmana in Siria, Iraq,
Tunisia e Libia il fantasma del genocidio è tornato ad agitare il mondo
per due principali ragioni. La prima riguarda l’interpretazione militare
del Jihād coranico finalizzata alla distruzione del mondo degli
“infedeli” dichiarato come inconciliabile con l’Islam; la seconda
ragione ha a che vedere con le persecuzioni civili e religiose che
stanno spingendo milioni di persone ad un esodo biblico verso l’Europa,
mediante l’utilizzo di ogni mezzo di trasporto, a partire da quello
affidato ai tragici barconi che cercano in ogni modo di superare il
Canale di Sicilia.
Ancora una volta l’Occidente sembra in
larga parte rifugiarsi nell’indifferenza come in passato si chiuse
nell’ignavia e nel successivo tentativo di negazionismo, allontanando da
sé il problema e lasciandolo sulle spalle dei paesi rivieraschi in cui
approdano i profughi il peso dell’accoglienza come previsto dal Trattato
di Dublino; la più recente modifica apportata nel 2008, non prevede
infatti quando sarebbe accaduto nel Mediterraneo nel volgere di pochi
anni e si basa ancora sulla previsione di un limitato numero di aventi
diritto allo status di profugo, così come lo stesso è definito da
trattati internazionali ormai datati.
Il dibattito in corso in queste ore si
scontra con l’esito parziale e insoddisfacente del Consiglio Europeo del
23 aprile dove si è stabilito che “saranno compiute azioni per
individuare e distruggere le imbarcazioni dei trafficanti prima che
siano usate. Queste azioni saranno in linea con il diritto
internazionale e il rispetto dei diritti umani. Si porterà avanti una
cooperazione contro le reti dei trafficanti attraverso l’Europol e
schierando funzionari per l’immigrazione in paesi terzi. Saranno
triplicati i finanziamenti alla missione di sorveglianza e salvataggio
Triton. Il mandato di Triton non sarà modificato e continuerà a
rispondere alle chiamate di soccorso dove necessario. Sarà limitato il
flusso dell’immigrazione irregolare e si eviterà che le persone mettano a
rischio le loro vite attraverso la collaborazione con i paesi di
origine e di transito, soprattutto i paesi attorno alla Libia.
Sarà rafforzata la protezione dei
rifugiati. L’Unione europea aiuterà i paesi di arrivo dei migranti e
organizzerà la ricollocazione dei migranti negli altri paesi membri su
base volontaria. Chi non otterrà lo status di rifugiato sarà
rimpatriato.”
Se non suonasse macabra in tale
circostanza, si potrebbe utilizzare l’espressione “una goccia nel mare”
per definire ancora una volta l’indifferenza dell’Europa (non solo degli
stati ma soprattutto dei popoli) e la sottovalutazione di un fenomeno
epocale che scuoterà nei prossimi anni le fondamenta stesse di un
Vecchio Continente il quale sembra non avere ancora imparato nulla dalla
storia e si appresta a diventare responsabile di un ennesimo genocidio
dalla proporzioni gigantesche che si consuma nella tomba liquida del
Mediterraneo. Né può essere in alcun modo esimente la preoccupazione
elettoralistica, com’ è risultato in modo evidente dalla dichiarazioni
del premier britannico Cameron, dell’eventuale avanzata dei soggetti
politici della destra europea, in presenza di politiche di accoglienza
ed integrazione omogenee in tutta l‘Unione.
Nel giorno in cui celebriamo la Liberazione dal Nazifascismo,
sarebbe opportuno riflettere se stiamo ancora una volta comportandoci
come coloro che nei tanti eccidi del nostro tempo si sono voltati
dall’altra parte imponendosi di non voler sapere cosa stesse accadendo,
salvo poi celebrare ipocritamente le vittime innocenti innalzando
monumenti di ossa umane. E sarebbe utile ricordare il sacrificio di
milioni di soldati alleati provenienti da tutto il mondo che sono
sepolti nei grandi cimiteri di guerra spesso vicini a quelle spiagge in
cui sbarcarono e morirono perché il mondo diventasse migliore e la
speranza della “felicità” – come ha ricordato Papa Francesco pochi
giorni fa – diventasse per tutti gli abitanti del pianeta il primo
inalienabile diritto.
Se anche stavolta – e potrebbe essere
l’ultima – ci chiuderemo nelle fortezze vacillanti della nostra
“normalità” suoneranno implacabili le parole di Hanna Arendt a
conclusione del processo che condannò l’ex contabile della morte Adolfo Eichmann
a Gerusalemme il 31 maggio del 1962 : “Il guaio del caso Eichmann era
che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né
perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”,
(La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 2003).
di LUIGI SANLORENZO
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