Mauro Crisafulli
L'eterno conflitto.
La disputa tra
ebrei e arabi per il territorio storicamente noto come Palestina nasce
nel 1896, quando Theodor Herzl, il giornalista ebreo ungherese a cui si
deve la nascita del movimento sionista, creato insieme a Max
Nordau, pubblica Der Judenstaat, (Lo stato Ebraico) un pamphlet in cui
si propugna l’idea della creazione di uno Stato che offrisse agli ebrei
riparo dall’antisemitismo da sempre radicato in Europa: «Solo nella
terra degli avi promessa da Dio, gli Ebrei potranno sentirsi uguali a
tutti gli altri popoli e non essere discriminati». Il Sionismo è quindi
alla base dell’ondata migratoria che interessa la Palestina a partire
dalla fine dell’Ottocento, ma per costituire un nuovo Stato è necessaria
non solo la popolazione, ma anche un territorio, oltre al
riconoscimento di una potenza mondiale che avalli il progetto. È la Gran
Bretagna, con mandato sulla Palestina dopo aver sconfitto l’impero
Ottomano, a fornire appoggio al popolo eletto: nel 1917 la Dichiarazione
Balfour annulla il precedente accordo con cui nel 1915 la Gran Bretagna
aveva promesso la Palestina agli arabi, come controparte per l’aiuto
contro l’impero Ottomano. Se nel 1895 gli ebrei in Palestina sono circa
56 mila, l’8% della popolazione, a fronte del restante 92% di arabi, nel
1929 gli ebrei salgono a 170 mila, incremento dovuto soprattutto alle
politiche inglesi tese a favorire l’immigrazione e a garantire terre
agli ebrei. Le leggi razziali e il Nazismo portano un gran flusso di
ebrei in Palestina e la conseguente occupazione di terre che un tempo
appartenevano agli arabi, così si giunge alla Grande rivolta araba che
dura dal 1936 al 1939: il 19 aprile 1936 Hajji Amin al-Husayni, Mufti di
Gerusalemme, fonda il Supremo Comitato Arabo e dichiara uno sciopero
generale che si protrae per sei mesi. La rivolta viene repressa nel
sangue nel 1939. Le lotte continuano con in più l’entrata in scena di
alcuni gruppi paramilitari israeliani che si macchiano di
diversiArafat, Peres e Rabin alla firma degli Accordi di Oslo del 1993.
La pace finì dopo pochi mesi, anche a causa dell'assassinio di
rabinattentati contro la Gran Bretagna, tra cui il famosoattentato
all’Hotel King David dove muoiono 91 persone, come rappresaglia per la
temporanea chiusura inglese all’immigrazione ebraica, dovuta soprattutto
a interessi petroliferi. Nel 1947 la Gran Bretagna rinuncia al mandato
sulla Palestina e l’Onu propone la risoluzione 181, il famoso Piano di
partizione della Palestina che assegna il 56,5% del territorio agli
ebrei che sono circa 600 mila e il 42,5% agli arabi, che sono il doppio:
un milione 200 mila. Il piano è un fallimento: gli arabi rifiutano, ma
l’Unscop, il comitato costituito appositamente dalle Nazioni Unite,
coglie il punto focale della vicenda: «Due considerevoli gruppi, una
popolazione araba con oltre 1.200.000 abitanti e una popolazione ebraica
con oltre 600.000 abitanti con un’intensa aspirazione nazionale, sono
diffusi attraverso un territorio che è arido, limitato, e povero di
tutte le risorse essenziali. È stato pertanto relativamente facile
concludere che finché entrambi i gruppi mantengono costanti le loro
richieste è manifestamente impossibile in queste circostanze soddisfare
interamente le richieste di entrambi i gruppi, mentre è indifendibile
una scelta che accettasse la totalità delle richieste di un gruppo a
spese dell’altro». La distruzione del villaggio arabo di Dheir Yassin
nel 1948 dà il via alla nakba – la catastrofe – l’esodo e la
dispersione degli arabi palestinesi. Nel 1948 nasce lo Stato di Israele
per proclamazione unilaterale. Egitto, Giordania, Siria e Iraq,
coalizzati, dichiarano guerra a Israele: l’esercito israeliano, meglio
armato e addestrato di quello della coalizione araba, non solo sconfigge
il nemico, ma colpisce la popolazione civile araba. L’anno successivo,
quando la prima guerra arabo-israeliana volge al termine, Israele
possiede il 78% del territorio palestinese – agli arabi resta il 22%: la
Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est ed espelle dai
territori conquistati gran parte degli arabi. È questo il momento in cui
nasce il problema dei profughi palestinesi in Libano e in Giordania,
situazione che resta critica a lungo, nonostante la risoluzione 194
delle Nazioni Unite che stabilisce il diritto al rientro in patria dei
profughi arabi. Nel 1964 nacse l’Olp – Organizzazione per la liberazione
della Palestina e il movimento di resistenza Al Fatah con a capo Yasser
Arafat. La guerra dei sei giorni del 1967 contro Siria ed Egitto porta
Israele al possesso di tutto il territorio palestinese, comprese le
Alture del Golan, il deserto del Sinai e Gerusalemme Est. Nello stesso
anno l’Onu vota la risoluzione 242 che, per dirla con Chomsky, serve a
creare una situazione di stallo: «Nonostante fosse stata deliberatamente
formulata in modo vago nella speranza di ottenere l’adesione generale,
vi sono pochi dubbi sul modo in cui la risoluzione venne interpretata
dal Consiglio di sicurezza, compresi gli Stati Uniti: richiedeva una
pace completa in cambio del completo ritiro israeliano, forse con
qualche reciproco e minore aggiustamento. La 242 non venne attuata.
Nonostante tutti avessero firmato, gli stati arabi rifiutarono di
accordare una pace completa e Israele rifiutò di ritirarsi
completamente. Notate che la 242 è piattamente negazionista: non offre
nulla ai palestinesi, che vengono contemplati solo in relazione al
problema dei rifugiati». Una prima svolta diplomatica si verifica con
l’intervento del presidente egiziano Sadatche accetta la proposta di
pace del mediatore delle Nazioni Unite Gunnar Jarring per una pace
completa con Israele in cambio del ritiro israeliano dal territorio
egiziano. Nel 1974 Arafat, a capo dell’Olp che riunisce al suo interno
tutti i movimenti di resistenza palestinesi, viene invitato all’Onu come
rappresentante del popolo palestinese e chiede di costituire uno Stato
indipendente palestinese nei Territori Occupati, Striscia di Gaza e
Cisgiordania, con la medesima sovranità pretesa e ottenuta da
Israele.Nel giugno 1982 gli israeliani invadono il Libano per sgominare
la resistenza palestinese che ha nel Paese dei cedri la sua roccaforte;
ad agosto l’Olp firma il cessate il fuoco in cambio dell’incolumità per i
civili palestinesi. Israele non manterrà gli accordi. Nel 1987 inizia
la Prima Intifada che si protrae fino al 1992: scioperi, disobbedienza
civile, boicottaggio dei prodotti israeliani, manifestazioni, una
mobilitazione non organizzata e pacifica che viene repressa nel sangue
dagli israeliani. Nel 1993 Arafat e Shimon Peres firmano gli Accordi di
Oslo, alla presenza di Bill Clinton e Yitzhak Rabin, quegli accordi che
valsero agli stessi Arafat, Peres e Rabin il premio Nobel per la Pace
nel 1994. Gli Accordi prevedono una progressiva stabilizzazione della
situazione, ma il processo di pace resiste solo pochi mesi, spegnendosi
del tutto nel 1995, con la morte di Rabin, ucciso da un estremista
ebreo. L’incertezza e le violenze continuano fino al 2000, quando
iniziano i negoziati di Camp David che però sono un fallimento: le
condizioni per i palestinesi sono inaccettabili. A settembre dello
stesso anno inizia la Seconda Intifada: a differenza della prima, questa
volta gli scontri sono aperti e violenti e la repressione israeliana
non si fa attendere. In questo contesto sempre più turbolento si radica
Hamas, il movimento di resistenza islamica nato a Gaza nel 1988. Nel
2001 Ariel Sharon vince le elezioni e dà il via alla costruzione del
muro di cemento armato alto otto metri e lungo 750 chilometri
all’interno dei Territori Occupati; nel 2004 la Corte penale
internazionale dell’Aja condannerà la costruzione del muro.Nel 2004
Arafat muore in circostanze misteriose e gli succede Abu Mazen. Nel 2006
Hamas vince le elezioni legislative, ma Israele, Stati Uniti e Ue non
riconoscono la vittoria perché Hamas è considerata un’organizzazione
terroristica. Hamas e Fatah si scontrano quando Abu Mazen scioglie il
governo guidato da Hamas. Le tensioni durano fino al 2007, quando le due
parti arabe si spartiscono l’esiguo territorio non ancora sotto il
controllo israeliano: Hamas prende la Striscia di Gaza e Fatah la
Cisgiordania. Dal 2004 si sono susseguite diverse operazioni e azioni
dell’esercito israeliano – Operazione Arcobaleno nel 2004, Operazione
Inverno Caldo e Operazione Piombo Fuso nel 2008 e 2009, l’incidente
della Freedom Flotilla nel 2010 e, negli ultimi anni, l’Operazione
Pilastro di Sicurezza – che hanno reso la situazione sempre più
difficile e imprevedibile. Dall’altra parte i palestinesi – o meglio la
loro lotta contro gli ebrei israeliani – sembrano essere la forza
coesiva del mondo arabo, sempre più frammentato. È proprio l’unione
contro il nemico sionista che riunisce Paesi arabi con tradizioni
politiche molto diverse, si pensi all’Iran, all’Egitto, al Libano. A ben
guardare il conflitto israelo-palestinese assume sempre più i connotati
di un conflitto tra il mondo Occidentale e quello Arabo, non a caso
Israele intrattiene stretti legami strategici con gli Stati Uniti, da
sempre interessati allo scacchiere mediorientale, soprattutto per
controllarne le risorse. Con la riconciliazione tra Hamas e Fatah –
sancita grazie all’intervento dei servizi segreti egiziani – lo scenario
è cambiato: «La nostra divisione serviva solo al nemico sionista»
dichiarò nel 2011 il capo dell’ufficio politico di Hamas, ma non basta
conciliare il ramo estremista e quello più laico per portare i
palestinesi a ottenere un proprio Stato. La soluzione più logica al
problema sarebbe quella “due Stati per due popoli”, tuttavia le vicende
geopolitiche difficilmente seguono la logica spicciola, ma solo quella
dell’interesse. Fino a quando i palestinesi non riusciranno a trovare i
fondi per finanziare un’offensiva in grado di piegare le forze
israeliane, saranno sempre queste a detenere il potere, e l’appoggio
dell'Iran, che invia armi agli arabi palestinesi grazie ad alcuni
miliziani che attraversano il Sinai, non basta. Ma anche con adeguati
mezzi economici la legittimità di uno Stato e di un governo palestinese
sarebbe difficilmente riconosciuta: Hamas resta sempre un’organizzazione
di stampo terrorista e, si sa, il “pericolo integralismo”, come quello
Rosso durante la Guerra Fredda, è l’ennesima ottima scusa per sostenere
Israele.
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