martedì 24 settembre 2013

Non solo Telecom. Italia vendesi.
Un Paese ai saldi di fine stagione

Telecom Italia, Alitalia, il lusso e l'alimentare. Un Paese oberato dai debiti che non riesce a sostenere le proprie imprese. E nell'assenza di una politica industriale, l'Italia diventa terra di conquista per pochi spiccioli

di WALTER GALBIATI MILANO - Con un pugno di soldi, circa 350 milioni di euro, Telefonica conquista Telecom Italia, il colosso italiano delle tlc, che fattura 30 miliardi di euro, dà lavoro a 82mila dipendenti, possiede la rete nazionale delle telecomunicazioni e gestisce i dati sensibili delle procure di tutto il Paese, le intercettazioni.

Le banche di sistema, Intesa e Mediobanca con la controllata Generali (tutte azioniste di controllo di Telecom), hanno deciso in assenza della politica che il Paese può farne a meno. Del resto tutta la telefonia non parla più italiano. E senza colpo ferire la società, inabissata dai debiti come del resto l’Italia stessa, è pronta a finire nelle mani di chi dovrebbe rilanciarla. Chissà dove.

Lo stesso destino toccherà tra poco ad Alitalia. La compagnia di bandiera, sempre oberata dai debiti, volerà in Francia, qualora i soci coraggiosi (da Colaninno a Tronchetti Provera, dai Ligresti a Marcegaglia, dai Benetton ai Toto) lanciatasi in uno pseudo-salvataggio pilotato da Banca Intesa, non decidano di sostituirsi ai francesi nella gestione del gruppo in perenne crisi di liquidità. Saranno comunque ancora loro, dopo che la politica se n’è lavata le mani ben cinque anni fa, a decidere che l’Italia potrà fare a meno anche di un vettore nazionale in grado di collegare un territorio impervio come quello della Penisola e delle sue isole.

Resiste, invece, in mani italiane la società Autostrade, l’arteria viaria del Paese, che lo Stato ha affidato alla famiglia Benetton. I veneti hanno cercato di disfarsene, quando anche loro schiacciati da una acquisizione fatta a debito e con il pericolo del blocco delle tariffe, avevano intavolato le trattative per la cessione. Manco a dirlo, da Roma sono rispuntati gli  aumenti tariffari e la società è rimasta italiana.

Diversa sorte, invece, è toccata ad altre due grandi privatizzazioni italiane, Eni ed Enel, le cui reti, nevralgiche per il Paese, sono rimaste sotto il cappello dello Stato, nonostante la quota di controllo sia stata ridotta all’osso.

Con il passaggio all’estero di molti colossi del lusso  e dell’alimentare, se ne va non solo parte del Prodotto interno lordo, ma anche di quella forza economica che dovrebbe far ripartire il Paese. Le stesse aziende, diventate multinazionali, decideranno autonomamente dove pagare o non pagare le tasse. I casi delle grandi società di Internet, da Google a Facebook, da Apple ad Amazon, ma anche di gruppi come Starbucks e Fiat puntano da sempre a una eufemistica “ottimizzazione fiscale”.

Il pericolo è poi che con un debito che arriverà a oltre il 130% del Prodotto interno lordo, lo Stato non decida di cedere altri gangli nevralgici del Paese. Finmeccanica, il gruppo che gestisce tutti gli appalti delle nostre forze armate, e le sue controllate sono già in vendita. Dopo di che restano i tesori artistici, come Pompei e il Colosseo, per i quali la Disney farebbe tappeti d’oro.

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